Siamo noi stessi i limiti per i nostri sogni, al pari di quanto siamo noi stessi i geni che li potranno esaudire.

Roberta la Viola

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giovedì 24 ottobre 2013

"L'elefante incatenato" di Jorge Bucay

Riporto, di seguito, il testo che un lettore anonimo ha inviato come commento al precedente post "Convinzioni".
So bene che possa essere letto semplicemente cliccando in fondo, nella sezione commenti, ma il timore che possa sfuggire mi fa decidere di renderlo evidente.
Prima di lasciar leggere il testo che segue, ringrazio immensamente l'anonimo che ha trascritto il testo dello psicologo, scrittore e drammaturgo argentino Jorge Bucay.

“Non posso” - gli dissi - “Non posso!”
“Ne sei sicuro?” - mi chiese lui.
“Sì, mi piacerebbe tanto sedermi davanti a lei e dirle quello che provo... Ma so che non posso farlo”.
Jorge si sedette come un Buddha su quelle orribili poltrone azzurre del suo studio. Sorrise, mi guardò negli occhi e, abbassando la voce come faceva ogni volta che voleva essere ascoltato attentamente, mi disse:
“Ti racconto una storia...”.
E senza aspettare il mio assenso iniziò a raccontare.

“Quando ero piccolo adoravo il circo, mi piacevano soprattutto gli animali. Ero attirato in particolar modo dall'elefante che, come scoprii più tardi, era l’animale preferito di tanti altri bambini. Durante lo spettacolo quel bestione faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune… ma dopo il suo numero, e fino ad un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle zampe.
Eppure il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri. E anche se la catena era grossa e forte, mi pareva ovvio che un animale in grado di sradicare un albero potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire.
Era davvero un bel mistero.
Che cosa lo teneva legato, allora?
Perché non scappava?
Quando avevo cinque o sei anni nutrivo ancora fiducia nella saggezza dei grandi. Allora chiesi a un maestro, a un padre o a uno zio di risolvere il mistero dell'elefante. Qualcuno di loro mi spiegò che l’elefante non scappava perché era ammaestrato.

Allora posi la domanda ovvia: “Se è ammaestrato, perché lo incatenano?”. Non ricordo di aver ricevuto nessuna risposta coerente.
Con il passare del tempo dimenticai il mistero dell’elefante e del paletto e ci pensavo soltanto quando mi imbattevo in altre persone che si erano poste la stessa domanda.
Per mia fortuna, qualche anno fa ho scoperto che qualcuno era stato abbastanza saggio da trovare la risposta giusta:

l’elefante del circo non scappa perché è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo.

Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino indifeso appena nato, legato al paletto. Sono sicuro che, in quel momento, l'elefantino provò a spingere, a tirare e sudava nel tentativo di liberarsi. Ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui.
Lo vedevo addormentarsi sfinito e il giorno dopo provarci di nuovo e così il giorno dopo e quello dopo ancora...
Finché un giorno, un giorno terribile per la sua storia, l'animale accettò l'impotenza rassegnandosi al proprio destino. L’elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perché, poveretto, crede di non poterlo fare. Reca impresso il ricordo dell'impotenza sperimentata subito dopo la nascita.
E il brutto è che non è mai più ritornato seriamente su quel ricordo.
E non ha mai più messo alla prova la sua forza, mai più...”

“Proprio così, Demiàn. Siamo un po' tutti come l'elefante del circo: andiamo in giro incatenati a centinaia di paletti che ci tolgono la libertà.
Viviamo pensando che “non possiamo” fare un sacco di cose semplicemente perché una volta, quando eravamo piccoli, ci avevamo provato ed avevamo fallito.
Allora abbiamo fatto come l'elefante, abbiamo inciso nella memoria questo messaggio: non posso, non posso e non potrò mai.
Siamo cresciuti portandoci dietro il messaggio che ci siamo trasmessi da soli, perciò non proviamo più a liberarci del paletto.
Quando a volte sentiamo la stretta dei ceppi e facciamo cigolare le catene, guardiamo con la coda dell'occhio il paletto e pensiamo:
non posso, non posso e non potrò mai”.
Jorge fece una lunga pausa. Quindi si avvicinò, si sedette sul pavimento davanti a me e proseguì:
“E' quello che succede anche a te, Demiàn. Vivi condizionato dal ricordo di un Demiàn che non esiste più e che non ce l'aveva fatta.

L’unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo mettendoci tutto il cuore… tutto il tuo cuore!”




                                                         
                                                              Foto: Sebastião Salgado

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