Siamo noi stessi i limiti per i nostri sogni, al pari di quanto siamo noi stessi i geni che li potranno esaudire.

Roberta la Viola

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venerdì 2 agosto 2013

La chiamano responsabilità.

E chi ce l'ha?
Qualcuno ne ha troppa, sfociando nel senso di colpa, qualcuno ne ha troppo poca, sfociando nella negazione a tutti i costi.

Conosco persone che si caricano di troppa responsabilità, che si sentono la causa di tutto e arrivano con questo anche a sviluppare quel tanto caro senso di colpa.
Conosco persone che invece non riescono e non sono mai riuscite a dire la difficile frase "mi dispiace".

C'è chi dice che dietro questa de-responsabilizzazione ci sia un retaggio culturale, che da bambini ci inculcano anche solo con un gioco.
Cado dal letto e l'adulto mi dice "Cattivo letto! Che ha fatto cadere questo angioletto."
In questo modo e in tanti altri modi insegno al bambino a non chiedersi cosa di diverso poteva fare lui per non cadere. Sì, è un gioco, ma se è ripetuto tante e tante volte, almeno quante sono le cadute in cui incappa un bambino, non è difficile immaginarne la portata degli effetti e delle conseguenze.

Conosco persone che di fronte ad un chiarimento con un'altra persona, si perdono nelle giustificazioni del loro comportamento, evitando fino in fondo il confronto con la situazione.

E' vero, ognuno di noi vive a proprio modo la realtà, ed è vero che ognuno di noi cerca di stare nel miglior modo possibile nella propria realtà, a volte anche a discapito dell'ammissione delle proprie responsabilità sulle conseguenze e, a volte, anche rinunciando a quell'onestà che permetterebbe di vivere davvero serenamente anche i propri "errori".

Anche qui, a riguardo degli errori, da bambini ci insegnano che sbagliare è una cosa grave, che è una cosa che porta a volte ad una punizione, penso al bambino che cade e che  in certi casi prende la sberla dal genitore, quindi la domanda è: che cosa insegniamo ai nostri figli quando, fino ad una certa età lasciamo che sia addirittura colpa dell'oggetto, il letto, ad averli portati alla caduta e poi da una certa età in poi se cadono si beccano uno scappellotto?

Chi si confronta con i propri errori, riuscendo a tenersi in "equilibrio" con la propria realtà?

Perché proprio come gli adulti, fino ad una certa fase della nostra vita, ci hanno fatto vedere, la realtà può essere modificata a tal punto che un  letto può farci uno sgambetto.
E altrettanto abbiamo imparato che far vedere a qualcuno che abbiamo sbagliato può essere grave, tanto da poter arrivare alla violenza fisica.
Sarà forse anche per questo, che impariamo prima a modificare la realtà, poi a nasconderla e quasi mai ad accettarla, non ammettendo che con il nostro comportamento inviamo all'altro un messaggio, che certamente delle reazioni provocherà.

Allora l'errore diventa risorsa solo quando riesco ad accettarlo e prima ancora a vederlo, a prenderlo, a farmene carico, senza per questo cadere nel senso di colpa, e rielaborarlo per trarne da quell'esperienza qualcosa di nuovo e possibilmente di migliore.

Ho imparato, dal confronto con gli altri, che la colpa può diventare responsabilità, che mai va intesa come il cilicio sulla schiena.
La responsabilità equivale con la causatività, e questa corrisponde al poter tenere il telecomando in mano, non quello che mi fa accendere l'elettrodomestico in casa, ma quello che mi fa accedere alle mille risorse che lascio spesso inespresse, che fanno parte di me e della mia vita, ma soprattutto fanno parte del mio stare al mondo.
Il telecomando che mi fa decidere chi voglio essere, il telecomando che mi fa relazionare con gli altri, sapendo che ho una responsabilità, mentre mi muovo nella sfera immensa delle relazioni.
Il telecomando che non mi fa aspettare che siano gli altri a decidere per me.
Il telecomando che mi fa capire che io sono presente a me stesso e agli altri con la responsabilità delle mie azioni e del mio dire.
Il telecomando che mi ricorda che io sono protagonista di ciò che vivo al pari degli altri.
Spesso lasciamo il telecomando, o meglio, spesso siamo convinti di non aver partecipato alla scena che si è appena girata, e proprio per questo ciò che facciamo è lasciare il telecomando nelle mani dell'altro.
Quando procediamo in questo modo, ci convinciamo che noi non abbiamo causato niente, che ciò che abbiamo vissuto è solo frutto delle azioni o delle decisioni altrui e che il nostro è stato solo reagire.

Come diceva quell'attore, "M'hai provocato? E mo' te magno!"
Dunque, la domanda è: vogliamo essere liberi di dire, fare e pensare?
Certo che lo siamo, altrettanto certo che ognuno di noi alla nascita venga dotato del suo telecomando.
Solo che poi le scelte che facciamo implicano tante possibili risposte, tante quante sono le differenze tra le persone con cui entriamo in relazione, e tra quelle risposte sono incluse anche quelle che non ci piacciono.

Questo post è dedicato a chi si perde per poi ritrovarsi, a chi ha voglia di migliorare per se stesso e non per gli altri, a chi è capace di confrontarsi con i propri errori e affrontarli, a chi sa che c'è sempre almeno una scelta, anche se decidiamo di non scegliere.
A chi  è consapevole, nel bene e nel male.
A chi ha smesso di pensare che Jessica Rabbit sia così solo perché qualcuno l'abbia disegnata in quel modo.
Infine è dedicato a M. che aspettava un nuovo post da maggio.






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